Cosa fare per rendere l’apprendistato uno strumento efficace
La via per far trovare un lavoro ai giovani, negli ultimi ventisette anni, è stata lastricata da quattro riforme, tutte rivelatisi insufficienti. Serve una sterzata
Semplificazioni, incentivi, apertura ai disoccupati, forme di collegamento anche con scuola e università: le misure introdotte da ben quattro riforme nell’arco di 27 anni non sono bastate a fare dell’apprendistato uno strumento efficace per l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, soprattutto al Sud. I motivi sono diversi, ma sostanzialmente tutti riconducibili a uno, cioè la mancanza di una filiera formativo-lavorativa che integri scuola, università e questa particolare tipologia contrattuale: una sfida che Governo e Regioni dovrebbero finalmente affrontare.
I numeri, d’altra parte, sono impietosi. Secondo l’Osservatorio sul precariato dell’Inps, tra gennaio e ottobre 2023 le assunzioni in apprendistato sono state 288mila a fronte delle 302mila riscontrate nello stesso periodo del 2022. E anche le trasformazioni dall’apprendistato al tempo indeterminato sono calate da 98mila a 83mila in un solo anno. Nel corso del tempo, l’apprendistato ha coinvolto mediamente mezzo milione di giovani l’anno, facendo segnare numeri molto modesti per quello di primo e quello di terzo livello: rispettivamente 10mila e mille persone l’anno. A fare la parte del leone sono stati commercio, manifatturiero ed edilizia, settori che da soli totalizzano circa il 60% del totale dei contratti di apprendistato in essere. Le statistiche, insomma, confermano come l’apprendistato sia un istituto ormai in costante declino.
E di chi è la colpa? Sicuramente del mancato raccordo con gli altri incentivi alle assunzioni, intervento necessario per evitare sovrapposizioni e consentire alle imprese di orientarsi su tipologie contrattuali più convenienti. Senza dimenticare la mancanza di un solo interlocutore istituzionale, visto che la normativa in materia di apprendistato cambia di regione in regione con una serie di conseguenze negative. La prima è intuitiva e consiste nelle difficoltà che le imprese riscontrano nell’orientarsi nel mare magnum di regole, differenze ed eccezioni. Per il resto, la formazione regionale trova altri due limiti nella scarsa disponibilità di fondi e nel fatto che la formazione trasversale di base è spesso slegata dal mestiere che il giovane in questione è chiamato a imparare.
Serve una “sterzata”, evidentemente, soprattutto per fare in modo che l’apprendistato si riveli utile ad abbattere gli oltre venti punti percentuali di tasso di disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno? Il governo Meloni sta pensando di facilitare il passaggio da una forma di apprendistato all’altra e di dare a due aziende la possibilità di stilare piano formativi integrati che consentano allo stesso giovane di sostenere due rapporti lavorativi in parallelo prima presso un’azienda e poi presso l’altra. Sono misure utili, specialmente se sommate ai 15 milioni di euro che dal 2024 saranno destinati a tutte le tipologie di apprendistato formativo.
Basterà? Si spera di sì. Ma la speranza potrebbe trasformarsi in illusione prima e in delusione poi, qualora il mondo della scuola e quello dell’università fossero esclusi da certi interventi normativi. Bisogna assicurare, infatti, che le scuole dispongano di personale formato e dedicato a dialogare con le imprese interessate ad assumere giovani in apprendistato. Così come è necessario integrare l’istruzione tecnica e la formazione professionale con l’apprendistato in un’unica, grande filiera formativo-lavorativa. A meno che non si voglia continuare a contare gli under 30 disoccupati e a certificare l’inefficacia di uno strumento normativo fondamentale per inserire i giovani nel mercato del lavoro.
Raffaele Tovino